L’alimentazione durante il Fascismo: sobrietà alimentare anche nelle alte sfere

L’alimentazione durante il Fascismo: sobrietà alimentare anche nelle alte sfere

Il fascismo in Italia impone sobrietà, disciplina, obbedienza e alimentazione semplice e ferrea. Benito Mussolini, mangiatore frugale a causa di un’ulcera gastroduodenale, diagnosticatagli nel 1925, ripete spesso che non si devono impiegare più di dieci minuti al giorno per i pasti. Egli stesso, a causa del problema di salute, evita pasti eccessivamente ricchi di portate e nutriti declinando l’invito con un informale bigliettino di scuse.

Il pane diventa alimento sacro, simbolo di sussistenza primaria, continuamente enfatizzato dal regime: «Italiani, amate il pane» dice il duce in un poema propagandistico.
Il problema di fondo è che in quegli anni non c’era abbastanza companatico per tutti e i tentativi da parte del regime per risolvere il problema sono deboli. A partire dal 1925, con la battaglia del grano, iniziano a diminuire le esportazioni di grano, cereale primario con cui si produce farina, impiegata nella panificazione. Gli italiani vengono esortati a nutrirsi di alimenti salutari come riso, pesce e formaggi locali. Questi alimenti sostituiscono anche la carne, alimento irraggiungibile per la maggior parte della popolazione, presente solo nelle tavole di cittadini abbienti. Soprattutto nell’alimentazione contadina, il legume costituisce e sostituisce l’elemento carneo e spesso si accompagna con polenta.
A seguito delle sanzioni per l’invasione dell’Etiopia e poi con l’ingresso nella Seconda Guerra Mondiale, le linee di  politica interna in Italia si volgono, in campo alimentare, ad aumentare gli spazi coltivabili nelle grandi città per fornire la massima resa. Nascono gli “orti di guerra”, spazi creati trasformando i parchi e le aiuole delle aree urbane. L’iniziativa obbedisce anche all’esigenza di coinvolgere nell’esperienza bellica la popolazione civile e la figura dello studente-coltivatore ne diviene l’emblema. Negli anni Trenta, il regime conduce una politica alimentare oculata, sobria e “di risparmio” anche nell’ambito dell’alta cucina. Riporto un esempio di Pranzo del 14 Gennaio 1933- Anno XI dell’Era Fascista. Le portate sono costituite da:

Ristretto in tazza
Spigole del tirreno
Asinelli degli Abruzzi in forno
Piselli freschi
Petti di fagiano Duca d’Urbino
Insalata di sedani
Asparagi alla milanese
Pere dama bianca
Preferiti
Cestini di frutta
Vini: Orvieto secco, Capri rosso, Barolo vecchio, Spumante d’Alba

Il cartoncino del menu è sobrio, decorato in oro con lo scudo reale di Casa Savoia sorretto da due Fasci Littori: immagine semplice che delinea la condizione politica del tempo. Le portate, inferiori rispetto ai pranzi di fine Ottocento sia per quantità sia per tecnica di cucina, presentano preparazioni italiane con ingredienti di qualità, difficili da reperire al di fuori della classe aristocratica. A risentire dell’aria del tempo è anche  la decorazione del menu, lontana dai decori e dai monogrammi di inizio secolo.
Il regime fascista utilizza la ricchezza e la varietà della cucina italiana solamente una volta, nel maggio del 1938, quando per motivi propagandistici viene organizzata una mostra di specialità regionali allestita a Roma all’interno del Circo Massimo dove viene costruito appositamente per la manifestazione un «villaggio rustico».
Le trattorie allestite rappresentano città come Torino, Firenze, Napoli e Bologna, e in ciascuna di esse, il visitatore poteva assaggiare, secondo i propri gusti, prodotti tipici regionali.

Immagine: Pubblico dominio
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