Non esiste soltanto la Torino barocca, ma anche quella che nacque quando, dopo il 1865, la città si rivolse al progresso scientifico, tecnologico e imprenditoriale e iniziò a preparare il trampolino che ne avrebbe fatto, in breve tempo, un polo industriale di prestigio. Anche l’architettura ne fu condizionata, poiché fu partire dal 1870 circa che iniziarono a comparire edifici funzionali, affiancati quasi sempre da ciminiere, a fare da contraltare ai palazzi di Guerini e di Juvarra.
Oltre a quelli adibiti a fabbrica, nel 1882, su un terreno lontano dal nucleo urbano, in corrispondenza dell’attuale corso Unione Sovietica, sorse una gigantesca costruzione di 25.000 metri quadrati, destinata a soppiantare l’ormai insufficiente Ospizio di Carità di via Po e a ospitare gli anziani indigenti.
Venne bandito un concorso, vinto da Crescentino Caselli, allievo di Alessandro Antonelli, che realizzò in soli cinque anni uno dei fabbricati più imponenti (e più lugubri) della Torino ottocentesca, il Regio Istituto per la vecchiaia, universalmente conosciuto come “Poveri Vecchi“.
Il Caselli impiegò nel suo lavoro tutte le più moderne tecnologie, tanto che la casa di riposo fu dotata di un sistema di riscaldamento centralizzato, uno dei primi in città, testimoniato ancora oggi della ciminiera che sovrasta il complesso, progettata e costruita con grande abilità tecnica e dall’aspetto del tutto originale.
Al di là di queste note architettoniche, innovative per l’epoca, i Poveri Vecchi, visti dal di fuori, trasmettono un vago senso di tristezza, che aumenta se si entra nell’edificio, dove le sale attualmente adibite a sedi universitarie colpiscono per la loro vastità e l’altezza dei soffitti: viene spontaneo pensare a tutta la solitudine di cui furono testimoni, al senso di abbandono e di smarrimento che dovettero trasmettere, in attesa che l’ INPS facesse il resto.
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