Non è “un” monumento, ma “il” monumento quello a Vittorio Emanuele II, alto 39 metri, la cui gestazione fu lunga e travagliata. Il suo scopo fu quello di offrire alla città un’imponente ricordo del primo re d’Italia, le cui spoglie erano proditoriamente state tumulate a Roma.
Il nuovo sovrano Umberto I fu commosso all’idea di quell’omaggio e decise non solo di donare ai torinesi tutti i cimeli del padre, ma di contribuire alla sua realizzazione con un ingente somma di un milione di lire.
A pochi mesi dalla morte di Tojo, sembrava cosa fatta, dunque iniziarono i soliti giri burocratici per organizzare l’evento; fu scelto il luogo, individuato nell’ex piazza d’Armi, bandito un concorso che fu subissato di progetti e finalmente la Gazzetta Ufficiale del Regno, il 1° aprile 1879, pubblicò il nome del vincitore, il giovane scultore genovese Pietro Costa.
Ma si sa che gli artisti sono spesso capricciosi: nonostante Costa avesse presentato un programma dettagliato e si fosse impegnato a consegnare l’opera entro la fine del 1885, i lavori andarono a rilento e sorsero anche contrasti sulla modalità di esecuzione. Ne scaturì addirittura una causa, che frenò ulteriormente tutto il meccanismo.
Il monumento a Vittorio Emanuele II fu inaugurato solo il 9 settembre 1899, a 21 anni dalla morte del re e con quattro di ritardo sulla tabella di marcia, ma da quel giorno divenne un punto di riferimento per tutta la città, tanto che entrò nel novero dei “basta la parola” torinesi.
La statua del “padre degli italiani”, come la chiamò ironicamente Massimo d’Azeglio, rappresenta un Vittorio in piena forma, a capo scoperto: al centro di una grande aiuola fiorita, è sostenuta da quattro colonne doriche arricchite dalle allegorie dell’unità, la libertà, la fratellanza e il lavoro; i festoni sorretti da quattro aquile ricordano le date simbolo del Risorgimento.
Il re, da lassù, guarda compiaciuto la sua città, al cui incremento demografico -dicono i pettegoli- contribuì non poco.
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